So che la cosa puzza d’irrazionale, però, per dovere di cronaca, la racconto ugualmente.
Un giorno, curiosando negli archivi uaar, trovo una sottocartella dal nome “Residui di superstizione”. Strano, vero?
Intrigante, l’apro, dentro c’è un documento dal titolo enigmatico: “La leggenda dell’ateo errante”.
Chissà cos’è? Per prudenza lo salvo su un floppy, ma appena salvato il sistema operativo si blocca.
Un virus? Boh.
Reset, spengo, riaccendo, scandisk, e mi connetto di nuovo all’archivio uaar: la cartella non c’è più! È scomparsa misteriosamente.
Che storia è questa?
Sento in lontananza il suono di tamburi, sembrano i tamburi della foresta, mi guardo intorno ma non capisco da dove proviene il suono.
Mah! Sarà la mia immaginazione…
Cheffaccio? Mi rilasso.
Apro il Solitario, clicco sulle carte e le sposto, sbadiglio annoiato, mi stiracchio pigramente come un gatto e, involontariamente, avvicino la mano al dischetto.
Di colpo il suono di tamburi ritorna ed aumenta sempre più, il disco vibra, cerco di impugnarlo ma questo mi sfugge di mano, rotea a mezz’aria per un istante e poi s’infila nella fessura, da solo!!
Si apre una finestra a tutto schermo, appare il misterioso documento.
Prodigioso!
“Questa è la storia di Pippo il Miscredente.
Un giorno Pippo, in compagnia di alcuni suoi amici di merende, pensò di fare una piacevole passeggiata per i sentieri di montagna. L’allegra comitiva partì da fondovalle inerpicandosi nel fitto della pineta e, dopo un lungo percorso, giunsero ad una remota chiesetta, anch’essa nascosta nel fitto della vegetazione.
Gli amici di Pippo, per un eccesso di goliardia, chiusero il poveretto nella chiesetta e se ne tornarono a valle.
-Non lasciatemi qua!- Gridò Pippo all’imbrunire.
-Maledetti! Che possiate sbagliare sentiero!-
-Maledetti! Che vi capiti la via più impervia!-
Il povero Pippo riuscì a liberarsi solo il mattino seguente, ma il crudele scherzo lo segnò profondamente: perse il lume della ragione e vagò per le montagne per il resto della sua vita.
Di tanto in tanto la gente delle montagne ode una sinistra risata, potente, beffarda, è la risata di Pippo, che si vendica del torto subito. Da allora tutti gli atei sono condannati a passeggiare in montagna, ogni domenica, per sempre. Ogni volta gli atei sbagliano sentiero, e vagano senza sosta per le vie più tortuose.
Questa è la maledizione della prima rupe.”
Che storia incredibile!
La macchina informatica spara fuori il disco dalla fessura, il disco si squaglia, si accartoccia e poi prende fuoco. Alla fine rimane solo un mucchietto di cenere sul pavimento.
“Stupide superstizioni!” penso, mentre le ginocchia si cozzano fra loro suonando come nacchere. Io non credo alle maledizioni, ma, ripensandoci, a Torre Pellice abbiamo sbagliato strada, ed a Monteviasco abbiamo vagato senza sosta tutto il giorno…
No, non è possibile, è solo un caso.
Però…voglio fare una prova.
Mi avvicino alla mia dolce metà e, a mezza voce, pronuncio il temibile nome.
“Montevia…”
La poverina sbianca in volto, le figlie s’irrigidiscono, interessante….allora incalzo:
“Monteviasco-Monteviasco-Monteviasco!”.
Lei si tuffa come un portiere spanciando sul pavimento, e zampettando a mò di lucertola si nasconde sotto al letto.
Le figlie invece corrono all’impazzata su e giù per il corridoio, urlano, schiumano dalla bocca, roteano la testa, gli occhi e le braccia.
Singolare reazione. Vabbè, non è detto che sia la maledizione, forse è solo perché il trauma è recente, in fondo siamo ancora in terapia.
Trascorrono alcuni giorni e, rapito dalle faccende quotidiane, non penso più al sinistro episodio: al primo sabato del mese ci troviamo tutti alla sede, si parla del più e del meno, il clima è sereno, spensierato. Ahh, sono sempre piacevoli le nostre riunioni!
D’un tratto i volti s’incupiscono, una voce rassegnata pronuncia meccanicamente la triste domanda:
“Questa domenica dobbiamo andare in Val Bedretto, chi viene?”.
Edoardo trova una giustificazione plausibile, il compleanno del figlio. Riccardo per fortuna è malato, ma suo figlio dovrà portare le colpe del padre: espierà a quota 3000 metri.
Gli altri non hanno scuse e stancamente alzano la mano. Poi si voltano verso di me e mi guardano: “ e tu?”.
Ignaro del rischio mi lascio persuadere, “quasi quasi ci verrei, ma la moglie….non so…”. Prontamente Franca subentra: “non preoccuparti, è facile e pianeggiante, chiamatemi stasera che la convinco io.”
La sera stessa, dopo aver incatenato la moglie al calorifero, telefoniamo alla Franca:
-Non sarà come Montevi-a-s….?-
-Ma no! Non ti preoccupare, si arriva con la macchina, poi c’è la funivia, poi è tutto piano come il lungomare di Rimini, c’è gente con la carrozzina, con i pattini a rotelle, c’è sempre il vento a favore, fidati!-
-Giura!-
-Giuro.-
-Rigiura!-
-Che io possa aumentare cinque chili se non dico la verità!-
Con queste parole mia moglie si convince, sa bene che le donne su certi argomenti non scherzano.
Domenica.
Al punto di ritrovo manca la moglie di Riccardo, Franca le telefona a casa e la scusa è: “Oops, mi sono dimenticata.”
Dimenticata? Chi può dimenticarsene? Pippo non si dimentica di noi, la punizione ricadrà sugli altri!
In auto arriviamo ai piedi della funivia e lì ci aspetta la prima sorpresa: la funivia non funziona, è ferma per revisione. Questo è un chiaro messaggio, significa che non ci potremo muovere in senso orizzontale, ma solo in senso verticale, sostituendoci alla funivia.
La via più impervia!
Una fragorosa risata riecheggia nell’aria, raggela il sangue nelle vene. Pippo? No, per fortuna è la risata di Emanuele. Un premuroso pannello ci illustra i possibili sentieri che dovremo percorrere.
“Beh, facciamo un giretto breve, da qui a Nante e poi scendiamo…da millecento arriviamo a milleequattro” Dice uno, sperando che sia sufficiente per mitigare le ire di Pippo.
Percorse le prime rampate il gruppo si allunga, davanti i polpacci di ghisa, dietro quelli di marmellata. Ultima in assoluto la mia dolce metà, che trova il tempo per scaricare un po’ di zavorra.
“Oddiodiodio non ce la faccio. Ommadonnamadonna mi sento male. Oggesùgesù guarda come siamo in alto!” ansimava la coniuge, ed io pensavo “Non saremo per caso sulla via di Damasco? Ci manca solo la conversione pellegrina!”
Tra visioni allucinatorie e cali di pressione, ad un certo punto il sentiero interseca una strada asfaltata, la domanda sgorga spontanea: “Dove porta questa strada?”.
Franca, con soave candore ci risponde: “Oh, già! Non ci abbiamo pensato! Si poteva salire in auto fino a Nante.”
Ooohohohohohoho; la risata di Emanuele, forse.
“Forza e coraggio, il paese è vicino, un ultimo sforzo!” dicono da sopra. Sforzo? Lo faccio per raggiungere Gianluca, usando appieno le capacità dei miei polmoni. Gianluca, non so come faccia, parla e contemporaneamente cammina! Io credo che abbia un polmone indipendente, dedicato alla favella, ed altri tre o quattro destinati alla trazione.
“Senti Gianluca, noi gettiamo la spugna, arriviamo al paese e poi torniamo giù” gli dico ansimando.
“Sì, ma anche noi non andremo oltre, tutt’al più faremo un pezzetto nei dintorni di Nante.”
Arriviamo al paese, missione compiuta! Oh, è stata dura ma adesso possiamo riposarci! Possiamo sederci. Potremmo sederci, ma nessuno si siede.
Oohohohohohoho!
Ci voltiamo tutti verso Emanuele: “Sei stato tu?”. Lui casca dalle nuvole: “A fare cosa?”.
Il paesino è pieno di insidiosi cartelli gialli, e vedo che tutti leggono interessati le indicazioni.
Per di qua quattro ore, per di la cinque ore….Pesciun…
Franca punta dritto su mia moglie e con leggiadria: “Dai! Venite anche voi! È bello, è subito lì, si vede da qui, sarebbe quella collinetta a destra, due passi e siamo arrivati, così poi mangiamo tutti insieme!”.
Effettivamente sembra vicino, quasi quasi….vabbè.
Partiamo di nuovo, ma curiosamente non andiamo a destra, verso la collinetta, bensì in direzione diametralmente opposta. Faccio mente locale sul pannello degli itinerari e mi rammento: il sentiero dovrebbe essere diretto e breve, ma verso destra, non verso sinistra! Dopo qualche rampata avanzo timidamente i miei dubbi “Siete sicuri della direzione?”.
“Sì, sì.”
In effetti ostentano sicurezza. Gianluca adocchia una ghiotta boscaglia, ed invita mia figlia Giulia a seguirlo in una variante ecologico-culturale. “Noi passiamo di qui, ci troviamo sopra” dice Gianluca.
Qualche rampata oltre ed anche Luciano lascia il sentiero, lui e gli altri cercatori di funghi tagliano per i boschi, perché quello è il posto “buono”.
La salita prosegue fra lunghe rampate e brevi falsipiani, di tanto in tanto intravedo il pennacchio di Luciano nel folto dei boschi perché di colore poco mimetico.
Dopo una pineta si apre un varco anche verso destra, allora chiamo Franca ed indico quella via, ma lei, convinta: “No, no, il sentiero è questo! Poco più avanti il sentiero cambierà direzione”.
La sua convinzione vacilla un pochino quando, poco dopo, incontriamo uno di quei temibili cartelli gialli, recante un nome sconosciuto seguito da un tempo esagerato.
Finalmente carterpillar Franca si ferma per telefonare a “quelli davanti”: “Siamo di fronte ad uno strano cartello con nomi strani, è questa la strada giusta?”.
Suppongo che Astrid le abbia risposto sì, però, a giudicare dal tempo che ha impiegato per rispondere, immagino che le abbia descritto tutto il tragitto mancante.
Un po’ di cioccolato e si riparte, rigorosamente verso sinistra. Strada facendo sbucano dal nulla i cercatori di funghi, uno dopo l’altro, come folletti, e si spiegano a vicenda quanto hanno vagato a causa di una parete rocciosa.
“Ecco ecco! I fili della funivia! Basta seguirli.” esulta Franca. Non per fare il solito bastian contrario, ma i fili sono troppo sottili, ed i pali troppo bassi, sembrerebbe quasi una seggiovia.
Seguo di buon grado l’idea di Franca, perché seguendo i pali, almeno, si devia gradualmente verso destra.
Le piante si diradano, incrociamo una stradina che va, finalmente nella direzione giusta. Al centro di una conca una stalla, lì raggiungiamo il gruppo.
“Non sarebbe ora di pranzare?” domando.
“Ma no! Si pranza al Pesciun, è subito dietro questo dosso!”
Loro, che erano seduti, si alzano e si incamminano, noi proseguiamo, d’altra parte se si tratta di scavalcare un piccolo dosso! Da quella prospettiva il dosso pare piccolo, ma la montagna inganna: dietro a quello ce n’è un altro e poi un altro ancora più grosso.
Oohohohohohoho!
Emanuele è insieme a noi, e nessuno lo ha visto ridere.
Ai bordi della strada ci sono lamponi e mirtilli, e Luciano ne va ghiotto. Saltella fra i cespugli, si immerge, scompare dalla vista e poi guizza fuori con la testa, come una marmotta, ma con le labbra viola.
Luciano si ingurgita chili di mirtilli, ma anche lamponi, rododendri, stelle alpine e tutto ciò che una capra non disdegna, poi, ostentando un pudore alimentare afferma: “No,…io non mangio i panini, oramai è tardi per pranzare.”
Franca invece macina terreno al motto di “quando il gioco si fa duro i duri se la ridono”. Non so se dipende dall’aria rarefatta, ma Franca mostra un’espressione beata, quasi ilare, sembra una testimone di geova dopo la funzione domenicale.
La povera signora Anna è oramai alla frutta, fa tre passi e nove ansimi, misti a rantoli. Franca la incoraggia, a modo suo: “Dai Anna, fai come me, basta andare a zigzag, così sembra meno ripida la salita!”.
La signora Anna va già a zigzag, di suo, perfino con lo sguardo.
Finalmente arriviamo sotto l’ultimo dosso, all’arrivo della seggiovia, dove ci aspettano e ci incoraggiano Emanuele ed Antonio: “Forza, ancora pochi metri e poi vedrete il Pesciun, noi da qui lo vediamo, coraggio!”.
Coraggio? Ma perché il loro sguardo è intimorito? C’è qualche spiacevole sorpresa?
Sì.
Ad Emanuele e ad Antonio è mancato il coraggio di dire cosa si vede dal culmine: Il Pesciun, certo, ma quattrocento metri più in basso e più di un chilometro di strada.
Il culmine si trova a quota 1950 metri. Questo significa che, per essere li, abbiamo sbagliato alla grande, sia la direzione che la quota.
Oohohohohohoho! Senza ombra di dubbio.
Senza indugiare si riparte, adesso è discesa e l’idea di poter mangiare accelera l’andatura.
Arrivati al Pesciun ci ritroviamo tutti, o quasi: mancano sempre Gianluca e Giulia, chissà che fine hanno fatto?
Trangugiamo velocemente due panini davanti al ristorante, chiuso,poi, giusto il tempo di scrollarci di dosso le briciole e via di nuovo, verso il vento. Il vento viene da ovest e, nonostante ci siano i cartelli gialli che spiegano, chiaramente, la direzione per il fondovalle, il gruppo si avvia bellamente dalla parte sbagliata.
Oohohohohohoho! Pippo se la ride.
Ride? Allora richiamo con un grido i più rapidi: “Ehivoi, il sentiero è da questa parte, non di là!”.
Questa volta tengono in considerazione la mia opinione.
Oohohohohohoho lo dico io!
Il sentiero è stretto e ripido, ma più avanti si apre in un pascolo, con tanto di mucche. Forse le mucche sono troppe, forse il pascolo è piccolo, sta di fatto che il prato sembra bombardato di merende. In un raptus di romanticismo la mia consorte esclama: “Uuuuuh! Quanta! Non ne ho mai vista così tanta in vita mia!”.
In effetti non è poca, si avanza a passi acrobatici, come quando si attraversa un torrente saltando da un sasso all’altro.
Il povero Antonio non ne esce indenne, intento a schivare le mine non si accorge che le mucche stanno ancora bombardando: colpito alle spalle da un’ogiva, guarirà con una doccia.
Il sentiero si immerge di nuovo nel bosco, poi, in lontananza, vedo un’auto scura sulla strada, si ferma, scendono una bambina ed un adulto, si sbracciano, risalgono e se ne vanno.
Ha l’aria di un rapimento, Astrid ed Antonio però mi rassicurano, loro conoscono il linguaggio dei gesti, la traduzione: “Siamo vivi e stiamo bene, ci troviamo giù a fondovalle, al posteggio della funivia”.
Gli ultimi 35 minuti (secondo un cartello) sono il massacro degli arti inferiori. Provo l’andatura del maratoneta, e mi sbiello le anche, quella dello sciatore, e si infiamma il menisco, quella del salto triplo, e mi insacco le vertebre.
Astrid mi svela un segreto: “tieni molli le ginocchia, lasciale andare”. Ci provo: le ginocchia le lascio andare, vanno, come vanno, vado anch’io, per poco non vanno anche i denti davanti!
Finalmente arriviamo al sospirato posteggio, dove troviamo Gianluca e Giulia che ci aspettano. “La risata ci ha depistato” si scusa Gianluca.
Dobbiamo recuperare i liquidi, andiamo al bar. “Birra per tutti, Oste della malora!” è finito il calvario, si ride e si scherza!
Oohohohohohoho!
Gli avventori del bar si guardano intorno spaventati. Pippo?
Oohohohohohoho!
Guardano verso di noi, increduli.
Oohohohohohoho!
Tranquilli, è Emanuele, di buon umore!
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